Viaggio a Firenze di William Shakespeare

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William Shakespeare, 28 giugno 1590, pomeriggio

Mi siedo, e a questo tavolo sono già pronti un pennino, un calamaio e fogli bianchi, sottili e costosi. Quale invito! Sì, lo raccolgo come fiore dalla terra, parlo di me a me e scrivo piano, in questa lingua che stimo la più elegante, la più copiosa di tutte, dopo la greca e la latina, primogenite sorelle.

Eccomi, sono a Firenze, è finito il mio viaggio durato giorni e poi giorni, e voglio ora dirne, ricordare la ragione che ad esso mi condusse, e qui in città, perché nel ricordarla vengo ancora percorso da brividi e sento lo stesso gioioso stupore di quella sera a Southampton, dove mi trovavo ospite del conte Henry.

Mi par di rivedermi nell’ampio studio, con l’amico John Florio impegnato nella traduzione del Decamerone di Boccaccio, quel servo che entrò annunciando la visita di Sua Eccellenza Virginio Orsini, nipote del granduca di Firenze Ferdinando I, e per suo incarico venuto fino in Inghilterra. Era alla ricerca d’un maestro d’inglese, egli avrebbe vissuto a Palazzo de’ Pitti, presso la corte granducale, per dar lezione ai nobili discendenti, e mi chiese, pochi giorni a seguire, d’esser quel maestro! Mi scelse, accettai, e non mi parve vero che a me, proprio a me, fosse stato offerto un tal sogno!

Così, meno di tre settimane dopo, ero alla rada di Porthsmouth ad imbarcarmi, iniziare il percorso su un mare soffocato dalla nebbia e io impaziente servo di quel Tempo che mai sembrava trascorrere. Il Tempo, si sa, è sempre in fallimento perché gli rimane da dare più di quello di cui dispone e, come un debitore insolvente e ladro, restava lì a beffarmi con un’ora e più ore! Mi inseguiva, eppure troppo lento, ridendo quasi, quando giungevo nel porto francese di Le Havre, cercavo tra mille difficoltà il cavallo da comprare e galoppavo veloce vedendo innanzi ancora bruma fumosa, sentendo i morsi della fame. E lui mi costringeva a fermarmi, mi invitava a cena! Uno dei personaggi da me recitati, a questo punto avrebbe chiesto: “Oh, si è mai sentito che il Tempo inviti a cena?” Ebbene sì, per schernirmi, allettandomi con le taverne di ogni borgo incontrato e i loro pasti caldi! Così seguitando, a rincorrermi su quella nave lumaca da Marsiglia a Livorno, dove ho finalmente trovato un pomeriggio di sole, di vera estate.

Sceso, ho porto il viso all’alto. V’erano degli uomini in divisa, sui bastioni, e uno tra tutti mi ha scrutato a lungo. Senza sorridere si è avvicinato, chiedendo il mio nome.

Un cenno, ero atteso, e il cavallo di già ben ferrato, con buona sella, buona briglia e staffe molto lunghe. All’uomo ho chiesto riferimento sulla strada da percorrere e tra le due mostrate, la piana e le colline, ho preferito la seconda, perché mi avrebbe portato tra le campagne, le erbe, forse fiori.

E sono andato, e molte ore ancora dinanzi avevo, delle quali qui non dico perché più mi preme descriver quanto m’aspettava. Cavalcando mi guardavo intorno, respiravo i profumi del giorno che si faceva sera, di una strada che diveniva tortuosa, salite e discese, e io temevo di smarrirmi e mi sarei certo smarrito se non avessi trovato, di passo in passo, gruppi di case illuminate dalla bianca luce della luna.

I contadini seduti a cena. Alle mie richieste, sorridenti mi spiegavano il cammino, mi offrivano del pane condito, acqua per il mio cavallo. Un pagliericcio, anche, per distendervi le membra, quando ero quasi giunto, felice perché Firenze si sarebbe a me svelata all’aurora, amica delle Muse.

Mi levai senza aver chiuso occhio, eppure diletto diveniva sin la stanchezza mentre, scortato da Lorenzo, l’uomo che m’aveva generosamente ospitato, affrontavo al trotto il pendio. Un raggio pellegrino ci coglieva improvviso rischiarando il verde intorno, la cima dove ci siamo fermati e, al pensiero di quanto smisurato incantesimo mi si è parato innanzi, la mano mia vacilla e l’inchiostro si rilascia a macchiare in piccoli tondi. Lo asciugo, e asciugo la fronte fatta di gocce di sudore: ho perfetta memoria di quella torre, la villa magnifica, proprietà della famiglia Segni, al cui servizio Lorenzo si prestava, e alle orecchie odo ancora la sua voce: diceva esser noi giunti alla collina di Bellosguardo.

Oh, mai nome fu più vero e giusto! Lo sguardo mio così si faceva, bello, sprofondando nel basso, alle cupole e case stagliate in un castone di cipressi, di olivi, senza null’altro tetto che una silenziosa distesa di rosa nascente.

Firenze, ninfa leggiadra che col seme delle sue infinite, seppure ancor distanti grazie, disponeva i miei occhi a una sorte di meraviglie! Le sentivo, e cadevo già vinto, come in una guerra d’amore, come alle braccia dell’amata, che sorride e ti cinge. E tra tutto quanto mi adulava, appena volgendo il viso alla mia destra, le pupille hanno incontrato ciò per cui tanto avevo navigato: Palazzo de’ Pitti, la giunonica, imponente residenza granducale!

Lorenzo m’ha spronato, m’ha salutato indicandomi l’ultima discesa da percorrere, ed io l’ho affrontata, serpeggiante, lunga, anch’essa di campagne, alberi, frutti che raccoglievo gustandoli come il vento al viso, e il Tempo ormai sconfitto perché le mura cittadine finalmente m’apparivano ai raggi aranciati del sole.

Costeggiandole, sono arrivato a una porta sì enorme, da costringere a sollevar il capo nel mirarla intera, e che il mio accompagnatore m’aveva detto chiamarsi San Pier Gattolini.

Dinanzi a me, si è aperta. Due guardie armate, tirando lentamente e faticosamente, l’hanno spalancata, mi hanno fermato, e quasi al sentire il mio nome si sono inchinate, rubandosi parole e gesti per indicarmi il tragitto. Non le ascoltavo, mi guidava quell’immagine dall’alto, vivida da non riuscire a levarne il pensiero. Andavo sul mio cavallo, facendomi largo tra la gente mossa dagli iniziali impegni quotidiani, l’emozione serrava la gola, una strada stretta che si terminava in uno slargo, una piazza.

Ed eccolo, eccolo! In quell’intervallo d’estasi ho rubato con le pupille ogni pietra, ogni arcata e cornice, ogni loggia e nicchia, perché bellezza tenta i ladri più dell’oro: Palazzo de’ Pitti, vita, fasto, corona!

All’immediato capii. No, non avrei potuto restare in una città sì tanto ispiratrice senza scriverne, e dunque lo faccio già adesso, nell’ore del primo giorno, e lo farò ogni volta possibile, sempre in questa lingua elegante e da anni studiata con l’aiuto dell’amico Florio. Sarà la sua voce lontana a guidare la mia mano nel raccontar d’un sogno, perché noi, tutti, siamo fatti della stessa sostanza dei sogni.

Ma basta il divagar! Respiro gli odori nuovi di questa ordinata stanza che m’accoglie ed è tutta mia, tendo l’arco della penna e colgo il segno: non dire di Firenze è come aver un bel vestito nuovo e non indossarlo.

(a cura di Maria Rosaria Perilli)

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