Cucina ebraica. Macellazione e sacralità del rito

Viaggio illustrato nella cucina ebraica. Tradizioni, precetti religiosi, feste, letteratura, cibi, segreti e ricette da tutto il mondo

La macellazione dell’animale deve seguire un preciso rituale denominato shechitah, una procedura minuziosamente regolata dal Talmud allo scopo di rendere la morte dell’animale meno dolorosa possibile. Si tratta di una forma di rispetto che si integra armonicamente in un insieme di norme che vietano ogni maltrattamento nei confronti degli esseri viventi. Già il Decalogo prescriveva, ad esempio, che anche gli animali dovessero riposare di Sabato (Esodo 20, 10). Il Talmud aggiunge, fra le altre cose, che un “un  uomo non deve mangiare il proprio pasto senza prima aver dato da mangiare alla bestia” (Berakhoth 40a) e che “non è permesso ad alcuno di acquistare un animale domestico o selvatico o un uccello, senza aver disposto per nutrirlo convenientemente” (Jebamoth 14d). Questo spiega anche l’avversione che, come attesta anche lo storico Giuseppe Flavio, gli ebrei dimostravano nei riguardi dei giochi del circo.

Non c’è niente di strano, quindi nel fatto che la tradizione ebraica si soffermi così in dettaglio sull’atto della shechitah. Innanzi tutto, la macellazione deve essere compiuta da un uomo esperto, lo shochet, autorizzato dalle autorità rabbiniche. Nelle comunità ebraiche yemenite, tuttavia, tale funzione può essere svolta anche da una donna. Vengono, comunque, espressamente escluse tre categorie di persone: i minori, i sordomuti e i pazzi.

La shechitah consiste nel far passare velocemente un coltello affilato sulla gola dell’animale. Lo shochet deve, prima di procedere all’uccisione, accertarsi, solitamente con l’unghia, che la lama del coltello sia perfettamente liscia, tagliente e senza la minima intaccatura, poi deve recitare la prescritta benedizione. La tradizione richiede espressamente che il movimento del coltello sia ininterrotto, che venga effettuato senza esercitare pressione, che il taglio incida trasversalmente la gola senza entrare nelle carni, che la trachea e l’esofago non vengano spostati: soltanto se tutte queste condizioni, che dovrebbero garantire una non eccessiva sofferenza da parte dell’animale vengono soddisfatte, la sua carne può essere mangiata. Ovviamente, bisogna pure che superi la ricognizione degli organi interni della bestia, al fine di verificare che non esistano malattie o malformazioni tali da renderlo taref, proibito. […]

(da Claudio Aita, Viaggio illustrato nella cucina ebraica, Nardini Editore)

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